
Lorenzo Emme
Ebbero a dir di me sull’ambiguità dell’essere, che mi rivolgo a uomo in cui riconosco la donna e che tento di ricreare nel ritrarla.
Quasi come a rubarne un pezzo e farla mia, quasi come ad inseguire l’altra metà di me ed immortalarla così che nell’immagine di lei mi specchi.
Dove non sono solo io ma due metà: di luce e ombra, di uomo e donna, di musica silente, di staticità creativa, sobrio sfarzo, timido egocentrismo, vita svanita che è morte.
Opposti coesistenti che ruvidi come la pelle di un rinoceronte e testardi avanzano lentamente, pesantemente ed incessantemente travolgendo, quant’anche superando e calpestando, tutto per raggiungere un obiettivo.
Che è ancora ambiguità nella solidità pesa dell’animale che materialmente sta; atono quasi a essere parte oggetto di un ambiente accanto al vibrare sensuale e sessuale poliglotta di interazione che mi porta a vagare ancor prima con la mente.
Forza e dramma del mio essere cieco di fronte allo svolgersi del mondo che fermo attraverso la fotografia, interpretandolo col vocabolario delle mie paure e dei miei vizi.
Cerco la bellezza nel microcosmo di un bosco autunnale, nella forma perfetta della luna nel cielo notturno, nella curva d’una schiena femminile, nella purezza riflessa di una goccia d’acqua e nello scatto, che è amalgama di sensi, più tardi è l’invisibile che resta.
Pratese “Duca” del mio regno in cui affondo le radici, scopro il mondo attraverso l’obiettivo e nel caos d’insieme fermo il soggetto, il senso e la vanità e d’essa m’immergo nello sforzo di allontanare narciso da te.
Guerra in cui cerco pace e al contempo me stesso.
Questo è il mio mondo interiore e dunque me.